Il coraggio del parlamentare che aiutava i deboli e lottava contro il malaffare e la corruzione nel saggio di Giovanni Capurso “La ghianda e la spiga – Giuseppe Di Vagno e le origini del fascismo”

 Di Valeria Marzoli


Nel centenario dell’assassinio del deputato pugliese Giuseppe Di Vagno avvenuto il 26 settembre 1921, Giovanni Capurso ne ricostruisce la vita e il pensiero, dai primi anni della formazione alle lotte per l’unità del Partito Socialista Italiano, dai soprusi dello squadrismo fascista all’elezione in Parlamento. La ghianda e la spiga - Giuseppe Di Vango e le origini del Fascismo di Giovanni Capurso, edizioni Proget (160 pagg., euro 13). Libro interessante, da leggere e rileggere con molta attenzione perché il delitto Di Vagno costituisce uno dei passaggi chiave nel processo che portò alla dittatura fascista.
Capurso, di che cosa tratta “La ghianda e la spiga”?
Il libro parla della storia del primo parlamentare ucciso a causa dell’odio fascista. Il titolo racchiude l’ideale d giustizia sociale del protagonista, Giuseppe Di Vagno, per tutti Peppino.
Come possiamo definire il suo ultimo lavoro: un romanzo storico oppure un saggio?
Tutto ciò che viene raccontato in questa storia si riferisce a fatti realmente accaduti. Naturalmente il taglio è assolutamente divulgativo, in quanto il mio scopo era quello di renderla accessibile a un pubblico vasto, cioè anche a chi non è esperto delle vicende dell’epoca a cui si fa riferimento.
Perché ha sentito la necessità di scrivere questo libro?
Le ragioni sono diverse. Ne dico un paio. La prima è perché si tratta di una vicenda ingiustamente (e inspiegabilmente) marginalizzata dalla storiografia. La seconda è legata al fatto che anche oggi ci sono valori, come quelli dell’antifascismo, che vanno assolutamente promossi. Il fascismo infatti fu una forma di intolleranza ancor prima che un partito e che oggi si sta ripresentando in forme più subdole e striscianti.
Chi fu Giuseppe Di Vagno e che cosa rappresentò per la sua Terra di Bari?
La sua è una storia di lotte per il riscatto sociale. In Puglia come nella gran parte del Mezzogiorno, emanciparsi era un’impresa che costava molta fatica. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, il sacrificio era la legge abituale e quotidiana che gravava sulle classi subalterne. In particolare fu il simbolo di un certo tipo di lotta contro il malaffare e la corruzione che imperversava purtroppo in Puglia, come in tutto il Meridione, e che calpestava i diritti dei più deboli.
Negli articoli, apparsi su “Puglia Rossa”, Di Vagno si schierò dalla parte dei contadini e dei poveri. Chi erano i “galantuomini” e i senza terra?
Il termine “galantuomini” nasce subito dopo l’Unità d’Italia, allorquando alla vecchia feudalità borbonica settecentesca, si sostituì la nuova classe agraria ottocentesca, arricchitasi subito dopo le leggi eversive della feudalità, attraverso l’accaparramento dei beni ecclesiastici e del demanio pubblico. Quest’ultimo fenomeno fu alle origini delle grandi proprietà terriere del Meridione d’Italia, alla nascita del latifondismo meridionale, ma soprattutto della contrapposizione fra proprietari terrieri e contadini. 
Che cosa avvenne il 1 luglio 1920 a Marzagaglia?
Il primo Novecento è stato un periodo di forti rivendicazioni sociali ed economiche. In un contesto di soprusi e angherie, il lavoro nei campi si traduceva in uno sfruttamento insopportabile e nella soggezione più completa del proletariato agrario al padronato terriero e ai suoi massari e mazzieri, fino a rendere impossibile l’intervento del potere politico a difesa dei più deboli. Erano condizioni che non solo esasperavano lo spirito di rivolta dei braccianti, ma alimentavano in loro, sia pure lentamente, la consapevolezza di una comunanza di interessi e la coscienza della necessità di esprimere una volontà collettiva di riscatto. Così, in particolare, negli anni del Dopoguerra ci furono diversi scontri cruenti tra braccianti e uomini assoldati dai grandi latifondisti, e molto spesso finivano nel sangue. Essi affondavano le radici nella disperazione dovuta alla mancanza di lavoro. E l’episodio nella contrada di Marzagaglia, presso Gioia del Colle, fu uno dei più rilevanti.
Nonostante la soppressione di qualsiasi forma di opposizione politica, le torture e le uccisioni, Benito Mussolini fu osannato da una parte degli italiani. Può spiegarci questa dicotomia?
Cerco di essere breve. In tanti ritenevano di poter avere da lui e dal fascismo dei vantaggi. Gli agrari e gli industriali lo appoggiarono per poter ridimensionare le richieste di contadini e operai attraverso la violenza squadrista, Giolitti accolse lui e molti suoi uomini nella sua lista per le elezioni politiche perché pensava di potersene servire ai fini elettorali, una parte dell’opinione pubblica pensò che dopo la Grande Guerra e il Biennio rosso era necessario un governo autoritario, più che autorevole. Poi, dopo che il fascismo consolidò il potere, intervenne la “fabbrica del consenso”: il regime seppe abilmente utilizzare i mezzi di comunicazione di massa, la scuola, e così via, per far credere che il sistema creato fosse il migliore dei mondi possibili.
Perché il fascismo “sentì l’esigenza” di uccidere Giuseppe Di Vagno?
Molto semplicemente Di Vango fu un politico scomodo, perché coerente fino in fondo con le proprie idee. In breve tempo la violenza poi si tradusse in metodo politico.
Qual è l’insegnamento che Di Vagno ci ha lasciati?
In un’epoca caratterizzato dalla crisi dei valori, una figura esemplare come quella di Di Vagno, può essere un ideale regolatore per le nuove generazioni, molto spesso smarrite. Per questo è importante rispolverare e, in taluni casi, riscoprire, queste storie straordinarie. Oggi abbiamo bisogno di testimoni. In fondo la storia è utile se diventa magistra vitae. 

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