Giovanni Capurso e "Il sentiero dei figli orfani". Un romanzo sui giovani e le proprie radici
Di Federica Brosca
Il sentiero dei figli
orfani è un romanzo
scritto da Giovanni Capurso, edito a
maggio 2019 da Alter Ego Edizioni. Le 204 pagine del libro sono un lungo ricordo
del protagonista Savino che, un giorno, si imbatte in un biglietto che lo riconduce
indietro nel tempo.
Viaggiando nella sua
memoria ci ritroviamo a San Fele, paesino rurale in provincia di Potenza,
quando Savino era soltanto un adolescente e viveva con i genitori e il fratello
Aldo. La storia, vista attraverso i suoi giovani occhi, rappresenta il percorso
di crescita nel delicato passaggio che dalle tenere certezze fanciullesche lo
porta ai primi dubbi adolescenziali. Dubbi che favoriscono lo sviluppo progressivo
di una consapevolezza: la necessità di emancipazione da quei luoghi del cuore,
gli stessi che, pur avendolo reso quello che è, sono al contempo incapaci di
dargli un futuro solido.
Il romanzo, dunque, è uno
scorcio sull’infanzia del protagonista, che ci renderà testimoni, oltre che dei
suoi primi approcci all’amore e alla morte, di un evento imprevedibile e dai
risvolti inaspettati. Parallelamente, l’autore ci pone davanti a una riflessione purtroppo attuale, su chi
ancora oggi è costretto ad abbandonare la propria città per assicurarsi un
avvenire, sentendosi, così come Savino, in qualche modo orfano della propria
terra.
A San Fele le giornate
scorrono tranquille e passate nella natura, tra agricoltura, corse nei campi e
tuffi nel fiume. Piaceri semplici, che al piccolo Savino Chieco, però, hanno
insegnato i valori essenziali della vita. Il quadro sembra ritrarre il
paesaggio di un tempo lontano, invece si tratta solo degli anni ’90.
A Savino piace arrampicarsi
fra i sentieri, arrivare in cima e osservare il panorama dall’alto, assaporando
un senso di libertà in quello che per lui rappresenta un rifugio sicuro dalle molestie del mondo. Giornalmente al suo
fianco, nelle avventure campestri, c’è Anguilla, il suo migliore amico, un
ragazzino agile e di poche parole. La famiglia, invece, è composta dai genitori
Michele e Carmela, proprietari di un’azienda agricola, dal bizzarro zio Gaetano
e dal fratello maggiore Aldo con cui, come di norma a quell’età, è spesso in
contrasto.
I personaggi, piuttosto
caratteristici, assomigliano ai pastori di un presepe. Proprio come quello che il
padre Michele realizza a mano con meticolosa minuzia mesi prima di Natale, trasmettendo
ai figli la virtù spesso dimenticata della pazienza.
A scuotere la quiete immobile
del paese è l’arrivo di alcuni forestieri: la bella e giovane Miriam, giunta
con la sua famiglia da Milano per le vacanze estive, sarà l’artefice dei primi
tumulti amorosi di Savino. E poi Adamo, un uomo misterioso e dal passato oscuro
che darà vita a un punto di svolta nella vicenda.
Gradualmente assistiamo a
un cambiamento nella coscienza del protagonista. Il panorama che amava osservare e che lo rendeva libero, all’improvviso
lo fa sentire prigioniero in una gabbia dorata. Il desiderio di scoperta di
quel mondo esterno, a lui estraneo, se prima era soltanto un pensiero occasionale,
successivamente diventa un tarlo prepotente nella sua testa. San Fele, l’amata San
Fele, che cosa gli avrebbe riservato per il futuro? La vita di sempre. La
stessa dei suoi genitori, dei suoi nonni. Forse non è quello che vuole.
In questo particolare
momento storico, ciò che accade a Savino è, in parte, la storia di ognuno di
noi. Quella di chiunque debba lasciare il proprio paese, la propria città, la
propria nazione, per realizzare se stesso o più semplicemente per garantirsi un
domani. Di chiunque abbia amato ma allo stesso tempo odiato il proprio luogo
d’appartenenza, così come si può odiare una madre che, pur avendoti dato la
vita, poi non è in grado di farti crescere. È in questo modo che ci si sente orfani, perché quando sei costretto ad
andare via non sei tu che abbandoni la tua terra, ma è lei che abbandona te.
Il romanzo di Capurso è
come un album di vecchie fotografie. Con dolcezza ma estrema lucidità, l’autore
ci ricorda cose che abbiamo vissuto e forse dimenticato. Le parole, semplici ma
poetiche e piene di significato, entrano dentro e non lasciano indifferente. La
dura realtà colpisce con leggerezza il lettore, non come uno schiaffo, ma come
una ruvida carezza.
Savino, ormai adulto,
farà poi ritorno a San Fele. Camminerà di nuovo in quelle strade che da piccolo
sembravano pura perfezione senza tempo, ma che ora fanno parte di un paesello svuotato dai figli. Perché il
tempo, invece, non ha pietà e passa inesorabile sopra ogni cosa.
Ancora una volta,
attraverso quei sentieri, arriverà in cima e osserverà il panorama dall’alto. In
quel momento, però, dentro di lui si farà spazio una consapevolezza diversa.
Alla
fine torniamo sempre da dove siamo partiti e, come sottolineato dalle parole di
Pavese nella prefazione, un paese vuol dire non essere soli, sapere che
nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando
non ci sei resta ad aspettarti.
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