Ricordando il libro “Lo spazio a 4 dimensioni nell'arte napoletana. La scoperta di una prospettiva spazio tempo” Di Adriana Dragoni

di Carmine Pizzolo

Ricordo - Una sala, a Napoli, della Associazione Lucana, affollata da un pubblico in attesa: il critico d'arte Maurizio Vitiello stava per rivelare una scoperta importante. L'attesa non veniva delusa. Vitiello spiegava chiaramente l'argomento, che era risultato difficile anche per gli studenti del corso di Storia dell'Arte, ai quali il prof Aldo Masullo aveva appioppato da studiare “la prospettiva come forma simbolica”. Ma Maurizio Vitiello, in quella riunione all'Associazione Lucana, lo rendeva chiaro con un facile discorso. Raccontava che la prospettiva è la maniera nella quale noi guardiamo le cose: ognuno le vede a suo modo, anzi ogni popolo, secondo ogni periodo storico, guarda il mondo secondo la propria prospettiva, simbolo della propria mentalità. Poi, il critico ci diceva della prospettiva nella pittura e indugiava sulla prospettiva pittorica toscana, che nelle scuole italiane viene insegnata ancora, come se fosse l'unica che riproduca la realtà così come è, come fosse l'unico modo giusto di vedere le cose. La avevano usata, per primi, a Firenze, Filippo Brunelleschi (1377/1446) e Masaccio (1401/1430), che con essa avevano espresso la mentalità della loro città.

Poi, l'aveva descritta Leon Battista Alberti (1404/1472). Questi aveva immaginato un pittore toscano, che, fermo al suo posto, rappresenta quello che ha di fronte a sé e lo ordina nello spazio. Per lui lo spazio è qualcosa di materiale che ha la forma di un cubo, ovvero è come uno scatolo che deve contenere ciò che lui vede secondo le precise regole dell'astratta geometria della prospettiva toscana.

Ma è giusto affermare che questa prospettiva toscana rappresenti il mondo come lui lo vede e come noi lo vediamo?

Lo stesso Alberti ha scritto che questa prospettiva, oltre che centrale (per la posizione statica del pittore che si pone in un punto frontale), è anche intellettualistica e artificiale, perché, ricorrendo alle regole di un astratto cubo immaginario, non rende veracemente la realtà.

Ricordo che, durante la riunione all'Associazione Lucana, alcuni del pubblico intervennero facendo delle osservazioni interessanti.

Una prospettiva che considera lo spazio come un cubo materiale è l'espressione di una civiltà materialistica e astratta al tempo stesso - osservò qualcuno - e ricordò che a Firenze, dove erano nate le banche, all'epoca dominavano i banchieri, padroni di qualcosa nello stesso tempo materialistica e astratta: il denaro.

E il fatto che oggi si dia grande valore alla prospettiva artistica toscana, testimonia che ora si considera generalmente il denaro un valore assoluto.

Poi, il critico raccontava che a Napoli questa prospettiva toscana non aveva suscitato grandi entusiasmi, anzi.

Spesso i napoletani non la applicarono, avevano una mentalità diversa.

Infatti, si era agli inizi del 1500, quando due sommi pittori, Francesco Cicino da Caiazzo e l'Autore del Polittico di Sanseverino, dipinsero, intorno a concrete figure tridimensionali, lo spazio luminoso del fondo d'oro, come si faceva nel tempo addietro.

E furono considerati arretrati.

Ma, nell'epoca successiva, quando, abbandonando gli schemi toscani geometricamente conclusi, l'arte, sfondando le pareti, poté esprimere se stessa nei liberi spazi e nei cieli terreni del barocco, allora i pittori napoletani furono riconosciuti precursori e Luca Giordano (1634/1705) fu osannato in tutta Europa.

Poi, Maurizio Vitiello presentò un libro che era stato pubblicato quell'anno da Tullio Pironti, “Lo spazio a 4 dimensioni nell'arte napoletana. La scoperta di una prospettiva spazio tempo.”

Dove si afferma che lo spazio, per quegli artisti napoletani, non riguarda la concretezza materiale degli oggetti, non è una materia, non è un oggetto, ma è tra gli oggetti.

È quel posto libero dove possiamo muoverci, cioè essere prima qua e poi . Lo spazio napoletano, per esistere, ha bisogno anche del tempo.

In effetti, per gli artisti napoletani, lo spazio è lo spazio-tempo teorizzato da Albert Einstein nel Novecento.

D'altronde lo stesso scienziato lo aveva capito e aveva affermato: “Le origini del nostro pensiero sono nella Magna Grecia”.

A Napoli si è sempre saputo.

Se si va al MANN, il museo archeologico napoletano, si vedono, ad esempio, nello stesso dipinto, delle mensole realizzate precisamente da punti di vista diversi, da qualcuno che non è stato lì fermo a guardarle.

Poi, questa prospettiva pittorica si era andata evolvendo fino a raggiungere, nel Settecento, la sua piena maturità nella rappresentazione di uno spazio in movimento.

Il pubblico dell'Associazione Lucana era un pubblico intelligente che, per la maggior parte, comprese bene l'argomento e lo accettò con entusiasmo.

La direttrice dell'Associazione, la professoressa Marisa Tortorelli Ghidini, sorridendo soddisfatta, offrì all'autrice del saggio, Adriana Dragoni, un magnifico mazzo di fiori.

E dopo che accadde?

In quei mesi, le riunioni sulla prospettiva napoletana furono una dozzina ed ebbero tutte successo.

E poi?

I proff. universitari che, promuovendola, ne avevano parlato, tacquero, i giornali ufficiali pure.

Silenzio.

Tranne per alcuni non di parte, che ora hanno di nuovo messo in campo l'argomento della scoperta fatta dalla professoressa Dragoni, spiegandolo e affermandone l'importanza eccezionale per la storia dell'arte occidentale e per la promozione della cultura e i prodotti artistici e artigianali napoletani.

Per prima “L'Alfiere”, la rivista cartacea napoletana che continua le sue pubblicazioni dal 1960, ha dedicato quattro pagine alla prospettiva napoletana. È stata seguita da altre pubblicazioni, tra cui “Agenzia Radicale”, che ha scritto (11/11/1921), titolandolo “La verità sulla prospettiva spazio-temporale nell'arte napoletana”, un articolo rivelatore, in cui ha riferito la storia documentata delle difficoltà che ha incontrato questa scoperta.

L'articolo inizia da quando su “il Mattino” del 23/9/1985 era apparso uno scritto di Michele Buonomo che riferiva l'osservazione, da parte della studiosa, di un anomalo spazio in movimento nelle “scene di genere” di Gaspare Traversi.

In seguito, un articolo del 18/6/1989 di Beniamino Caccavale raccontava che un saggio sulla straordinaria scoperta dello spazio-movimento nelle vedute napoletane del Settecento, frutto dello studio della professoressa Dragoni, era stato consegnato, in più tappe, a una prestigiosa casa editrice (l'Electa).

Prima della Pasqua del 1989, ne era stata consegnata una prima parte; infine, nel giorno di Santa Rita, il 22 maggio dello stesso anno, era stata completata, dalla professoressa accompagnata da una collega, la consegna con la seconda parte.

Il ritardo, ci è stato confidato, era dovuto alla preoccupazione di un futuro plagio, sospettabile per alcuni episodi accaduti nel frattempo.

I sospetti furono illustrati da un professore universitario al Presidente di un'importantissima Fondazione culturale napoletana, il quale consegnò il saggio a una diversa Casa Editrice, che avrebbe dovuto pubblicarlo a breve.

In realtà il suo compito consisteva nell'impedire che fosse pubblicato.

Perché, nel novembre del 1989, fu, invece pubblicato dall'Electa un libro “Le vedute napoletane del Settecento”, in cui si scriveva, insieme ad altri strafalcioni, di uno spazio-movimento che non era stato un'espressione di una cultura napoletana, ma che era stato “inventato”, per così dire, dal pittore modenese Antonio Joli.

Ma il professore di Sociologia dell'Università Federico II Giovanni Persico e il professore di Discipline Storiche della stessa università Vincenzo Pacelli avevano già preparato, convinti che il saggio originale sarebbe stato pubblicato a breve, l'uno la prefazione il 24 maggio 1989, l'altro la presentazione il 7 giugno 1989.

(Entrambi gli scritti appaiono nel libro pubblicato da Tullio Pironti, più di venti anni dopo, nel 2014).

 

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