Ricordando il libro “Lo spazio a 4 dimensioni nell'arte napoletana. La scoperta di una prospettiva spazio tempo” Di Adriana Dragoni
di Carmine Pizzolo
Poi, l'aveva descritta Leon Battista Alberti (1404/1472). Questi aveva immaginato un pittore toscano, che, fermo al suo posto, rappresenta quello che ha di fronte a sé e lo ordina nello spazio. Per lui lo spazio è qualcosa di materiale che ha la forma di un cubo, ovvero è come uno scatolo che deve contenere ciò che lui vede secondo le precise regole dell'astratta geometria della prospettiva toscana.
Ma
è giusto affermare che questa prospettiva toscana rappresenti il mondo come lui
lo vede e come noi lo vediamo?
Lo
stesso Alberti ha scritto che questa prospettiva, oltre che centrale (per la
posizione statica del pittore che si pone in un punto frontale), è anche
intellettualistica e artificiale, perché, ricorrendo alle regole di un astratto
cubo immaginario, non rende veracemente la realtà.
Ricordo
che, durante la riunione all'Associazione Lucana, alcuni del pubblico
intervennero facendo delle osservazioni interessanti.
Una
prospettiva che considera lo spazio come un cubo materiale è l'espressione di
una civiltà materialistica e astratta al tempo stesso - osservò qualcuno - e
ricordò che a Firenze, dove erano nate le banche, all'epoca dominavano i
banchieri, padroni di qualcosa nello stesso tempo materialistica e astratta: il
denaro.
E
il fatto che oggi si dia grande valore alla prospettiva artistica toscana,
testimonia che ora si considera generalmente il denaro un valore assoluto.
Poi,
il critico raccontava che a Napoli questa prospettiva toscana non aveva
suscitato grandi entusiasmi, anzi.
Spesso
i napoletani non la applicarono, avevano una mentalità diversa.
Infatti,
si era agli inizi del 1500, quando due sommi pittori, Francesco Cicino da
Caiazzo e l'Autore del Polittico di Sanseverino, dipinsero, intorno a concrete
figure tridimensionali, lo spazio luminoso del fondo d'oro, come si faceva nel
tempo addietro.
E
furono considerati arretrati.
Ma,
nell'epoca successiva, quando, abbandonando gli schemi toscani geometricamente
conclusi, l'arte, sfondando le pareti, poté esprimere se stessa nei liberi
spazi e nei cieli terreni del barocco, allora i pittori napoletani furono
riconosciuti precursori e Luca Giordano (1634/1705) fu osannato in tutta
Europa.
Poi,
Maurizio Vitiello presentò un libro che era stato pubblicato quell'anno da
Tullio Pironti, “Lo spazio a 4 dimensioni nell'arte napoletana. La scoperta di
una prospettiva spazio tempo.”
Dove
si afferma che lo spazio, per quegli artisti napoletani, non riguarda la
concretezza materiale degli oggetti, non è una materia, non è un oggetto, ma è tra
gli oggetti.
È
quel posto libero dove possiamo muoverci, cioè essere prima qua e
poi là. Lo spazio napoletano, per
esistere, ha bisogno anche del tempo.
In
effetti, per gli artisti napoletani, lo spazio è lo spazio-tempo teorizzato da
Albert Einstein nel Novecento.
D'altronde
lo stesso scienziato lo aveva capito e aveva affermato: “Le origini del nostro
pensiero sono nella Magna Grecia”.
A
Napoli si è sempre saputo.
Se
si va al MANN, il museo archeologico napoletano, si vedono, ad esempio, nello
stesso dipinto, delle mensole realizzate precisamente da punti di vista
diversi, da qualcuno che non è stato lì fermo a guardarle.
Poi,
questa prospettiva pittorica si era andata evolvendo fino a raggiungere, nel Settecento,
la sua piena maturità nella rappresentazione di uno spazio in movimento.
Il
pubblico dell'Associazione Lucana era un pubblico intelligente che, per la
maggior parte, comprese bene l'argomento e lo accettò con entusiasmo.
La
direttrice dell'Associazione, la professoressa Marisa Tortorelli Ghidini,
sorridendo soddisfatta, offrì all'autrice del saggio, Adriana Dragoni, un
magnifico mazzo di fiori.
E
dopo che accadde?
In
quei mesi, le riunioni sulla prospettiva napoletana furono una dozzina ed ebbero
tutte successo.
E
poi?
I
proff. universitari che, promuovendola, ne avevano parlato, tacquero, i
giornali ufficiali pure.
Silenzio.
Tranne
per alcuni non di parte, che ora hanno di nuovo messo in campo l'argomento
della scoperta fatta dalla professoressa Dragoni, spiegandolo e affermandone
l'importanza eccezionale per la storia dell'arte occidentale e per la
promozione della cultura e i prodotti artistici e artigianali napoletani.
Per prima “L'Alfiere”, la rivista
cartacea napoletana che continua le sue pubblicazioni dal 1960, ha dedicato
quattro pagine alla prospettiva napoletana. È stata seguita da altre
pubblicazioni, tra cui “Agenzia Radicale”, che ha scritto (11/11/1921),
titolandolo “La verità sulla prospettiva spazio-temporale nell'arte napoletana”,
un articolo rivelatore, in cui ha riferito la storia documentata delle
difficoltà che ha incontrato questa scoperta.
L'articolo inizia da quando su “il
Mattino” del 23/9/1985 era apparso uno scritto di Michele Buonomo che riferiva
l'osservazione, da parte della studiosa, di un anomalo spazio in movimento
nelle “scene di genere” di Gaspare Traversi.
In seguito, un articolo del 18/6/1989
di Beniamino Caccavale raccontava che un saggio sulla straordinaria scoperta
dello spazio-movimento nelle vedute napoletane del Settecento, frutto dello
studio della professoressa Dragoni, era stato consegnato, in più tappe, a una
prestigiosa casa editrice (l'Electa).
Prima della Pasqua del 1989, ne era
stata consegnata una prima parte; infine, nel giorno di Santa Rita, il 22
maggio dello stesso anno, era stata completata, dalla professoressa
accompagnata da una collega, la consegna con la seconda parte.
Il ritardo, ci è stato confidato, era dovuto
alla preoccupazione di un futuro plagio, sospettabile per alcuni episodi
accaduti nel frattempo.
I sospetti furono illustrati da un
professore universitario al Presidente di un'importantissima Fondazione
culturale napoletana, il quale consegnò il saggio a una diversa Casa Editrice,
che avrebbe dovuto pubblicarlo a breve.
In realtà il suo compito consisteva
nell'impedire che fosse pubblicato.
Perché, nel novembre del 1989, fu,
invece pubblicato dall'Electa un libro “Le vedute napoletane del Settecento”,
in cui si scriveva, insieme ad altri strafalcioni, di uno spazio-movimento che
non era stato un'espressione di una cultura napoletana, ma che era stato
“inventato”, per così dire, dal pittore modenese Antonio Joli.
Ma il professore di Sociologia
dell'Università Federico II Giovanni Persico e il professore di Discipline
Storiche della stessa università Vincenzo Pacelli avevano già preparato,
convinti che il saggio originale sarebbe stato pubblicato a breve, l'uno la
prefazione il 24 maggio 1989, l'altro la presentazione il 7 giugno 1989.
(Entrambi gli scritti appaiono nel
libro pubblicato da Tullio Pironti, più di venti anni dopo, nel 2014).
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